martedì 27 marzo 2012

L'agghiacciante testimonianza di un ragazzo arruolato nelle ACC

La cattura di Héctor German Buitrago alias “Martin Llanos”, capo delle Autodefensas Campesinas del Casanare (ACC), lo scorso 6 febbraio, è stata descritta con toni entusiastici come la fine della sanguinosa storia del paramilitarismo in Colombia. Basta volgersi per un momento al passato, anche a quello recentissimo, per cogliere la scarsa lungimiranza e il falso ottimismo di un'affermazione che ha il solo scopo di calmare l'opinione pubblica mondiale sulla complessa questione colombiana.
Il settimanale colombiano “La Semana” ha recentemente pubblicato l'agghiacciante testimonianza di un ragazzo arruolatosi volontariamente tra le file dell'ACC. Nel corso del racconto vengono descritti con crudo realismo i macabri riti e le atrocità commesse all'interno del gruppo paramilitare. Abbiamo deciso di riportarne una parte, per dar voce, anche in Italia, al grido inquietante di un paese vittima di uno dei più cruenti conflitti della storia dell'umanità.
“Sono nato a Puerto Gaitán, Meta, nel 1985. Sono cresciuto lavorando nel campo. Mi è sempre piaciuto il bestiame. La città non mi piace. Quando avevo 7 anni ho cominciato la scuola e a 9 l'ho lasciata. Non sono mai riuscito a seguirne il ritmo. 
Quando avevo all'incirca 15 anni divenni allevatore. Fino a quel momento non avevo mai visto la violenza. Cominciai a vederla quando mi consegnai alle armi e conobbi la cattiveria. Avevo 16 anni. Non avevo mai desiderato questo. Ma uno guarda un altro con un'arma e dice: «Guarda come si guadagna i soldi facilmente e guarda io quanto devo lavorare». 
Decisi d'impeto e andai, credendo che il lavoro fosse più leggero, una vita buona pulendo fucili. Ma quando cominciò l'addestramento le cose erano molto differenti da quelle che mi immaginavo. Nel mio corso eravamo 220, tra cui 15 donne. C'era molta gente che piangeva perché l'avevano presa con la forza da un momento all'altro. Ne reclutarono 150 nel Casanare, la maggior parte con la forza. […] I Buitrago erano papà, don Héctor, e figli, Martìn (Llanos) e Caballo. […] Durante l'addestramento la cosa che mi colpì di più era che uccidevano quelli del corso. Durò un mese. Accadde nel Tropezòn, nel lato di San Martìn. Sparavano molto. Se uno non correva lo uccidevano. 
Ricordo che due ragazzini che si erano fermati durante un esercizio erano stati uccisi. Uno aveva 17 anni e l'altro 25. Dovevamo correre per un percorso ad ostacoli mentre ci sparavano. Questo nei primi 4 giorni di addestramento. Era desolante. L'unica cosa che sapevo era che non sarei tornato a casa. Uno quando ci entra è cieco, non riceve consigli da nessuno, e quando già si ritrova lì si rende conto ma non può più andarsene. Nell'addestramento morirono all'incirca 15 persone. Una bambinetta la uccisero nel fiume. Era una bella ragazzina che aveva un buon rendimento. 
I comandanti volevano andarci a letto e lei aveva risposto al comandante “alias 800” che lei non sarebbe andata a letto con chiunque. Lui le disse: «vedremo». Lei si fermò un attimo e poi se ne andò. Il giorno dopo ci era toccata la prova del “pasopista” (una corsa ad ostacoli). Mentre stava attraversando il ponte tibetano sul fiume, cadde. Il comandante la mandò ad uccidere perché non aveva passato l'esercizio.
Altri li uccidevano perché non servivano. Gente che arrivava con un piede malato e non poteva trasportare l'equipaggiamento, per esempio. Queste persone venivano messe in disparte in una capanna affinché cucinassero, gli si diceva che gli sarebbe stato concesso di andarsene ed era una bugia; li isolavano per ucciderli. C'era un signore di 40 anni che aveva un piede malato. E un giorno lo chiamarono per andare ad uccidere una vacca. E la vacca che avrebbero ucciso era lui.
In altri corsi, quando l'organizzazione cominciò a crescere, uno vedeva che un giorno prendevano un gruppetto di 10 ragazzini tutti esili per un addestramento particolare e tre o quattro non ritornavano. [Una volta morti] Molti venivano tagliati a pezzi per non dover scavare un buco grande. Io non ho mai tagliato a pezzi nessuno. Questo compito spettava a chi impallidiva più degli altri. Nel mio corso, le prime a cui toccò farlo furono le donne. Dovevano tagliare un braccio alla volta. Alcune svenivano. Non ci si poteva rifiutare. […] La prima volta ci toccò guardare quattro ragazzine che tagliavano un corpo. Tutti in silenzio, perché nessuno poteva dire niente. Alcuni non guardavano neanche perché li impressionava. 
All'inizio sembra una cosa incredibile, ma poi diventa una cosa normale. […] In alcuni corsi si costringeva la gente a mangiare carne umana. Nel mio no. Io la provai più tardi per curiosità. […] A volte degenerava in un gioco strano. Sempre per gioco cominciarono a bere sangue. Semplicemente tagliavano i corpi, il sangue fuoriusciva e se lo bevevano. […] A causa di tutte queste morti la gente incominciò ad impazzire. Alcuni si lanciavano contro gli alberi per uccidersi e quando si risvegliavano, chiedevano «che è successo?», non si ricordavano di niente. […] L'ultima volta che vidi questo fu nel Casanare, nel 2004. Successe a tre vecchie. Cominciarono ad impazzire alle sei del pomeriggio fino alle dodici della notte e fu necessario legarle e buttarle in un fiume di acqua fredda. Solo così passava la pazzia. […]
Si parlava molto poco. Non si poteva conversare, nonostante questo ci si chiedeva perché si era venuti. Un ragazzino di 14 anni mi raccontò che era venuto perché gli piacevano le armi. Altri avevano problemi con la legge o non avevano un lavoro e si arruolavano per dare soldi alla famiglia. Molti erano stati reclutati con l'inganno o con la forza. I reclutatori erano pagati 200.000 pesos per ogni ragazzino che portavano. Gli dicevano che sarebbero andati a lavorare in una finca o li convincevano facilmente perché erano poveri mendicanti senzatetto. C'erano alcuni bambini che vendevano dolci a Bogotà e li avevano convinti a venire. Quando arrivarono si resero conto e si sedettero a piangere. […] Il minore di cui avevo la responsabilità aveva 13 anni, un ragazzino eccezionale, perché il ragazzino giovane è più guerriero del vecchio, è più pronto ad uccidere, più facile da sgridare […].
Nell'aprile del 2002 dovetti combattere e combattere fino quasi a perdere la vita: quelle dell'Anzuelo furono battaglie dure, quella volta uccisero tre dei nostri ragazzini, sette feriti, mentre alla guerriglia non successe nulla. La battaglia durò tutto un giorno, gli uni di qua e gli altri di là, bomba dopo bomba, cilindri, granate di frammentazione contro la guerriglia. […] Poi cominciarono i combattimenti contro il Blocco Centauros. Li chiamavano Urabeños perché venivano dalla regione di Urabà. Lo scontro si scatenò, come dice la gente, per potere: [gli Urabeños] volevano della terra di proprietà di Don Héctor, e per la coca. Arroyave [capo del Blocco Centauros], aveva rapporti con John 40, il guerrigliero (del fronte 43 delle Farc, del Guaviare). Martin Llanos ebbe quattro riunioni con quell'uomo ed egli non volle cedere; questo successe nel 2003, non riuscirono a mettersi d'accordo e si dichiararono guerra. Morì tantissima gente e nessuno mosse un dito.
L'ultimo combattimento fu all'incirca nel luglio del 2005. Furono 18 mesi di guerra durissima. Una guerra tra paramilitari e narcos incredibile. […] Credo che morirono 500 persone. In una battaglia morirono 100 dei loro uomini, perché arrivò l'aviazione dell'esercito, e a noi non spararono. Si trattò probabilmente di uno sbaglio perché Arroyave aveva comprato l'Esercito.[…]
Nella maggioranza dei luoghi si lavorava con l'Esercito: nel Casanare, nel Tauramena, Monterrey e nel Meta a Mapiripan, mentre a Puerto Lopez con la Polizia. In questi paesi si lavorava con la legge […] Quando ci furono gli scontri in Urabà l'esercito non mise mano. Sempre si mettevano da parte e lo stesso faceva la polizia. Camminare in un paese al fianco di 15, 20, 30 paramilitari era compromettente. Ognuno al suo posto. A volte prendevano parte agli scontri. Come è successo tre volte a Mapiripán dove sono entrati ad appoggiarci, e anche noi a volte li aiutavamo perché la guerriglia li teneva sotto scacco.
[…] Un giorno parlai con don Héctor e gli dissi che non volevo più lavorare con loro, che mi lasciasse vivere la mia vita, che se non fossi riuscito a vivere da civile sarei tornato alle armi. L'ultima volta che vidi quel signore fu nel 2005. La polizia mi voleva morto a quel tempo. Tagliammo la corda in tre. Alle 2.30 circa del pomeriggio, sentimmo un furgone. Passammo tutta la notte nascosti nella fogna. Lo stesso il giorno dopo. Ci nascondemmo in un altra fogna più in basso. Riuscimmo ad uscire dal Casanare. Non prenderò più in mano un'arma. Che mi ammazzino loro, io non lavoro più”. (Tratto da: “Yo conocí la maldad”, Semana 13-20 febbraio 2012)
Qui termina il racconto di un ragazzo colombiano qualunque. Ciò che mostra, in tutta la sua tragica chiarezza, è come l'assenza dello Stato ed il rapporto deviato tra forze di sicurezza e gruppi criminali, abbia da sempre favorito, e continui a favorire in Colombia, l'arruolamento di bambini e adolescenti tra le file dei diversi gruppi armati.
I giovani senza formazione sono generalmente i più esposti a cadere nelle reti dei narcotrafficanti e dei paramilitari. Si tratta di un problema sociale gravissimo, a cui il governo continua a non prestare attenzione. Lo ignora, semplicemente. Le risposte violente, la militarizzazione massiva di intere aree rappresentano gli unici provvedimenti che le varie amministrazioni hanno saputo adottare.
E' necessario prendere coscienza che il paramilitarismo nel paese è innanzitutto un problema sociale; senza investimenti seri nel campo dell'educazione e della sanità, senza una vera campagna di prevenzione tra i giovani, senza una profonda attenzione per le aree rurali la Colombia è destinata ad implodere.