sabato 8 settembre 2012

Ci dicono che domani vengono e ci ammazzano e noi rispondiamo che domani andiamo a lavorare e rimaniamo vivi


 Ci dicono che domani vengono e ci ammazzano 
e noi rispondiamo che domani andiamo a lavorare e rimaniamo vivi
 PACE, GIUSTIZIA e DIGNITA' 
per la
Comunità di Pace
di San Josè Apartadò

AIgruppo208 
Da alcuni mesi la situazione della Comunità di Pace di SJosè Apartadò diventa sempre più drammatica: Gli uomini , le donne , i bambini e gli anziani, che hanno coraggiosamente sfidato la pervesa logica della guerra colombiana con l'unica scelta possibile : la resistenza nonviolenta e quindi la pace , sono in pericolo. 

Non bastava l'arrivo di moltissimi paramilitari nel territorio della Comunità, ora si è aggiunta anche la polizia che , probabilmente, sta compiendo l'ultimo passo prima del massacro. I comunicati , unica " arma" della Comunità per far sapere al mondo ciò che quotidianamente vivono, sono sempre più allarmanti . 

C'è un preciso piano di distruzione e morte, ci sono liste di persone da eliminare; tutto questo alla vigilia delle " trattative di pace". Jesus Emilio , che abbiamo conosciuto e che tutte e tutti ricordiamo come nostro maestro di vita è tra i primi di quella lista di morte. 

Per questo chiediamo a tutti coloro che si indignano contro le ingiustizie e che lottano per un mondo di pace a seguirci attraverso questo blog, a parlare e far conoscere la Comunità di pace e a mantenere viva l'attenzione su ciò che avviene colà.
Una sola cosa chiedono e ce lo ripetono sempre: " LASCIATECI VIVERE"
Non lasciamoli soli!!!!......
AI gruppo 208
per saperne di più ecco le ultime notiziehttp://cdpsanjose.org/?q=node/242

venerdì 22 giugno 2012

Colombia: abitanti di La Esperanza e volontari italiani circondati da gruppi armati

Rimini, 21 giugno  2012

COMUNICATO STAMPA

Alcuni volontari di Operazione Colomba, Corpo Nonviolento di Pace dell'Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, manifestano la loro estrema preoccupazione per il radunarsi di numerosi individui armati, appartenenti a gruppi criminali (definiti BACRIM), vicino al piccolo villaggio di La Esperanza, luogo in cui si trovano attualmente i volontari stessi.

Operazione Colomba da oltre 3 anni realizza un progetto nonviolento di accompagnamento della popolazione civile della Comunità di Pace di San José de Apartadò (di cui La Esperanza fa parte), nel nord ovest della Colombia.

Tali gruppi presidiano a rotazione i punti di accesso al villaggio, i principali luoghi di ritrovo (come spazi pubblici e piccole botteghe) e, ancora più preoccupante, bivaccano nei pressi delle abitazioni civili, facendovi irruzione, richiedendo informazioni relative a luoghi e abitanti della zona e scattando fotografie (a scopo identificativo) alla popolazione locale.

Dal fine settimana scorso (16-17 giugno) continuano ad arrivare copiosi approvvigionamenti alimentari destinati al loro accampamento.
Queste informazioni provengono direttamente dai volontari italiani presenti in loco.

Alcuni individui armati sono entrati nell'abitazione dei volontari chiedendo esplicitamente di "non denunciare alle autorità competenti quanto sta accadendo nell'area".
I volontari hanno prontamente invitato queste persone ad allontanarsi.

In questo momento il rischio non è solo quello che questi gruppi commettano violenze nei confronti degli abitanti di La Esperanza; è fondato anche il rischio che sopraggiungano altri gruppi armati di diverse fazioni e che dello scontro ne paghi le conseguenze soprattutto la popolazione civile locale.
Preoccupante è anche l'assenza della Forza Pubblica, nonostante sia normalmente presente a Nueva Antioquia (2 sole ore di cammino da La Esperanza).

E' deplorevole che la popolazione civile di La Esperanza sia nuovamente coinvolta nel conflitto armato e sia costretta a convivere con questa realtà.


Una situazione simile si sta verificando già dallo scorso mese di novembre nel villaggio di Porvenir (non distante da La Esperanza).

Attualmente i volontari internazionali con la propria presenza disincentivano l'uso della violenza da parte dei gruppi armati nei confronti della popolazione civile e richiedono il tempestivo intervento delle autorità competenti perché questa situazione di pericolo cessi il prima possibile.


Per l'Associazione "Comunità Papa Giovanni XXIII"
Il Responsabile Generale
Giovanni Ramonda

Per info:
Marco Ghisoni
Cell. 348.1926645
Coordinatore Operazione Colomba per la Colombia

martedì 19 giugno 2012

Presenza paramilitare a La Esperanza

Ci giunge notizia che nel territorio di LA ESPERANZA si vedono paramilitari in continuo movimento e che si stanno radunando a decine nella zona.
Anche ieri ne hanno visti sfilare a gruppi di circa 20 con muli carichi di cibo e attrezzature.

La gente è molto spaventata, teme uno scontro con altre formazioni armate in un area dove vivono molti civili. Intanto gruppi di individui armati (alcuni mascherati) entrano nelle case della zona ed un gruppo numeroso si sarebbe accampato nel campo di calcio della vereda.

Durante il tardo pomeriggio di venerdì 15 giugno,diversi paramilitari, lungo il cammino per La Esperanza, hanno interrogato la gente del posto minacciandoli  di non rivelare a nessuno la loro presenza in quel luogo. 
Tali gruppi presidiano a rotazione i punti di accesso alla vereda, i principali luoghi di ritrovo (come spazi pubblici e piccole botteghe) e, ancora più preoccupante, bivaccano nei pressi delle abitazioni civili, facendovi irruzione e richiedendo informazioni relative a luoghi e abitanti della zona.
Dal fine settimana scorso (16-17 giugno 2012) continuano ad arrivare copiosi approvvigionamenti alimentari destinati al loro accampamento.
In questo momento il rischio non è solo quello che questi gruppi commettano violenze nei confronti degli abitanti de La Esperanza; è fondato anche il rischio che sopraggiungano altri gruppi armati di diverse fazioni e che dello scontro ne paghi come sempre le conseguenze la popolazione civile locale.
Preoccupante è anche l'assenza della Forza Pubblica, nonostante sia normalmente presente in Nueva Antioquia.
E' deplorevole che la popolazione civile de La Esperanza sia nuovamente coinvolta nel conflitto armato e sia costretta a convivere con questa realtà nell'assenza totale dello Stato.
Una situazione simile si sta verificando già dallo scorso mese di novembre nella vereda del Porvenir (distante circa 2 ore di cammino da La Esperanza).

giovedì 3 maggio 2012

Non possiamo rimanere in silenzio

"La strage di San Jose de Apartado" 

Serie TV. Contravía. Prodotto e diretto dal giornalista colombiano Hollman Morris. Racconta il massacro di tre bambini e delle loro famiglie e la  possibile responsabilità di questo massacro da parte dell'esercito e dei paramilitari.

buona visione






lunedì 16 aprile 2012

Cuori e fango

Oggi vi proponiamo una bellissima testimonianza pubblicata da 
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Colombia
...mi viene chiesto perché vorrei tornare...
...in testa tutto, tanto e niente..

Svegliarsi e vedere la signora Maria che ha già la faccia stanca perché per lei il giorno inizia molto prima del mio, ma che ti regala un buon giorno accompagnato da un sorriso "semplice", è il primo appuntamento che accompagnerà la mia giornata.
Preparare un tinto (caffè) per Annibal e vederlo andare nel campo con quella sua camminata vecchia e affannata mi dona la forza e la voglia per poter affrontare gli impegni e i pensieri che mi aspettano.
I bambini che ad ogni ora ti cercano per un saluto, per una caramella, per un abbraccio, per chiedere qualcosa o forse anche solo per un momento di silenziosa compagnia mi aiutano a pensare ad un possibile futuro, perché qui anche la parola futuro è incerta.

Quando poi si presenta Brigida alla porta, con sempre appresso un lavoro tra le mani, i suoi occhi e le sue mani parlano di sofferenza. Parlano di tanto dolore e tanta stanchezza, ma trattengono ancora la forza di parlarne e la voglia di andare avanti. Lei sa tante cose, ha visto tante cose e le dona tutte. Non smette mai di condividerle con chiunque abbia voglia di ascoltarla. Che forza... e che gratuità.
L'immancabile appuntamento della partita serale a domino, che dietro a piccole fiches nasconde  grandi strategie e necessita di tempo per apprendere a giocare bene davvero, mi aiuta a ragionare e a riflettere sulle cose, senza la fretta e la caoticità occidentale che mi porto sempre appresso.
Le partite a calcio con i bambini, i ragazzi e chiunque abbia voglia di correre un pochino dietro ad un pallone, mi riportano sempre alla mente l'ingiustizia quotidiana che questi giocatori scalzi sopportano e alla quale cercano di sopravvivere in modo alternativo.
I bambini nelle veradas più isolate che ti corrono incontro con la sola richiesta di leggere un libro insieme...
Il vecchio Joaquin che dopo un'interminabile giornata di duro lavoro passa da casa per portarci un ricchissimo casco di banane.
Juancho che non smette di ridere di fronte ad un semplicissimo gioco di magia fatto per i bambini.
Juan Gabriel che regala un sorriso che dice più di mille parole.
Gabriel che viene a fare i compiti a casa nostra la sera prima della consegna.
Jesus che, prima di andare a scuola, tutti i giorni si stringe alla cinghia un machete che è quasi più lungo della sua gamba e va a mungere le mucche.
...e tanto, davvero tanto tanto altro ancora...

Scendere in città per un accompagnamento mette addosso quella tensione e quella rabbia palpabile, che mi fanno abbracciare sempre più forte le motivazioni per cui sento questa mia scelta non come esperienza di vita, ma come scelta di vita.
Vedere le mule cariche, sotto la pioggia e con il fango fino alla pancia, mi regala la grinta, la tenacia e la testardaggine per poter pensare che non può essere tutto vano; che prima o poi anche la vita qui camminerà in maniera differente nonostante il fango che caratterizza  e “affatica” le strade.
Qui la stagione delle piogge dura molto, ma quando  "picchia" il sole, nemmeno i metri di fango resistono, e seccano al suo calore.
Le ingiustizie, le impunità, la violenza e la sofferenza sono sempre presenti nella vita di queste persone, ma il loro cuore è più forte.
E' la voglia che il cuore prevalga, è l'amore che vorrei imparare da queste persone condividendo con loro tutto quello che mi è concesso.
Questa è la pace che ho trovato qui, a San Josesito.
I cuori di tutti quelli che entrano nella nostra casa o che passano anche solo di sfuggita e con fretta. Senza i loro cuori non ci sarebbe la pace nemmeno in questa comunità.
Desidero tornare per poter condividere, imparare, donare e ricevere l'amore che il cuore di questa gente mi mette delicatamente, silenziosamente e gratuitamente davanti agli occhi.


Perché qui  le persone povere di averi, mi stanno aprendo e allargando il cuore.
Perché mi regalano essenzialità di cui spesso pecco.
Perché ho ricevuto tanti doni in solo tre mesi, e tanti ne vorrei restituire nei miei prossimi viaggi.
Clara
Articolo precedentemente pubblicato sul sito: 

martedì 27 marzo 2012

L'agghiacciante testimonianza di un ragazzo arruolato nelle ACC

La cattura di Héctor German Buitrago alias “Martin Llanos”, capo delle Autodefensas Campesinas del Casanare (ACC), lo scorso 6 febbraio, è stata descritta con toni entusiastici come la fine della sanguinosa storia del paramilitarismo in Colombia. Basta volgersi per un momento al passato, anche a quello recentissimo, per cogliere la scarsa lungimiranza e il falso ottimismo di un'affermazione che ha il solo scopo di calmare l'opinione pubblica mondiale sulla complessa questione colombiana.
Il settimanale colombiano “La Semana” ha recentemente pubblicato l'agghiacciante testimonianza di un ragazzo arruolatosi volontariamente tra le file dell'ACC. Nel corso del racconto vengono descritti con crudo realismo i macabri riti e le atrocità commesse all'interno del gruppo paramilitare. Abbiamo deciso di riportarne una parte, per dar voce, anche in Italia, al grido inquietante di un paese vittima di uno dei più cruenti conflitti della storia dell'umanità.
“Sono nato a Puerto Gaitán, Meta, nel 1985. Sono cresciuto lavorando nel campo. Mi è sempre piaciuto il bestiame. La città non mi piace. Quando avevo 7 anni ho cominciato la scuola e a 9 l'ho lasciata. Non sono mai riuscito a seguirne il ritmo. 
Quando avevo all'incirca 15 anni divenni allevatore. Fino a quel momento non avevo mai visto la violenza. Cominciai a vederla quando mi consegnai alle armi e conobbi la cattiveria. Avevo 16 anni. Non avevo mai desiderato questo. Ma uno guarda un altro con un'arma e dice: «Guarda come si guadagna i soldi facilmente e guarda io quanto devo lavorare». 
Decisi d'impeto e andai, credendo che il lavoro fosse più leggero, una vita buona pulendo fucili. Ma quando cominciò l'addestramento le cose erano molto differenti da quelle che mi immaginavo. Nel mio corso eravamo 220, tra cui 15 donne. C'era molta gente che piangeva perché l'avevano presa con la forza da un momento all'altro. Ne reclutarono 150 nel Casanare, la maggior parte con la forza. […] I Buitrago erano papà, don Héctor, e figli, Martìn (Llanos) e Caballo. […] Durante l'addestramento la cosa che mi colpì di più era che uccidevano quelli del corso. Durò un mese. Accadde nel Tropezòn, nel lato di San Martìn. Sparavano molto. Se uno non correva lo uccidevano. 
Ricordo che due ragazzini che si erano fermati durante un esercizio erano stati uccisi. Uno aveva 17 anni e l'altro 25. Dovevamo correre per un percorso ad ostacoli mentre ci sparavano. Questo nei primi 4 giorni di addestramento. Era desolante. L'unica cosa che sapevo era che non sarei tornato a casa. Uno quando ci entra è cieco, non riceve consigli da nessuno, e quando già si ritrova lì si rende conto ma non può più andarsene. Nell'addestramento morirono all'incirca 15 persone. Una bambinetta la uccisero nel fiume. Era una bella ragazzina che aveva un buon rendimento. 
I comandanti volevano andarci a letto e lei aveva risposto al comandante “alias 800” che lei non sarebbe andata a letto con chiunque. Lui le disse: «vedremo». Lei si fermò un attimo e poi se ne andò. Il giorno dopo ci era toccata la prova del “pasopista” (una corsa ad ostacoli). Mentre stava attraversando il ponte tibetano sul fiume, cadde. Il comandante la mandò ad uccidere perché non aveva passato l'esercizio.
Altri li uccidevano perché non servivano. Gente che arrivava con un piede malato e non poteva trasportare l'equipaggiamento, per esempio. Queste persone venivano messe in disparte in una capanna affinché cucinassero, gli si diceva che gli sarebbe stato concesso di andarsene ed era una bugia; li isolavano per ucciderli. C'era un signore di 40 anni che aveva un piede malato. E un giorno lo chiamarono per andare ad uccidere una vacca. E la vacca che avrebbero ucciso era lui.
In altri corsi, quando l'organizzazione cominciò a crescere, uno vedeva che un giorno prendevano un gruppetto di 10 ragazzini tutti esili per un addestramento particolare e tre o quattro non ritornavano. [Una volta morti] Molti venivano tagliati a pezzi per non dover scavare un buco grande. Io non ho mai tagliato a pezzi nessuno. Questo compito spettava a chi impallidiva più degli altri. Nel mio corso, le prime a cui toccò farlo furono le donne. Dovevano tagliare un braccio alla volta. Alcune svenivano. Non ci si poteva rifiutare. […] La prima volta ci toccò guardare quattro ragazzine che tagliavano un corpo. Tutti in silenzio, perché nessuno poteva dire niente. Alcuni non guardavano neanche perché li impressionava. 
All'inizio sembra una cosa incredibile, ma poi diventa una cosa normale. […] In alcuni corsi si costringeva la gente a mangiare carne umana. Nel mio no. Io la provai più tardi per curiosità. […] A volte degenerava in un gioco strano. Sempre per gioco cominciarono a bere sangue. Semplicemente tagliavano i corpi, il sangue fuoriusciva e se lo bevevano. […] A causa di tutte queste morti la gente incominciò ad impazzire. Alcuni si lanciavano contro gli alberi per uccidersi e quando si risvegliavano, chiedevano «che è successo?», non si ricordavano di niente. […] L'ultima volta che vidi questo fu nel Casanare, nel 2004. Successe a tre vecchie. Cominciarono ad impazzire alle sei del pomeriggio fino alle dodici della notte e fu necessario legarle e buttarle in un fiume di acqua fredda. Solo così passava la pazzia. […]
Si parlava molto poco. Non si poteva conversare, nonostante questo ci si chiedeva perché si era venuti. Un ragazzino di 14 anni mi raccontò che era venuto perché gli piacevano le armi. Altri avevano problemi con la legge o non avevano un lavoro e si arruolavano per dare soldi alla famiglia. Molti erano stati reclutati con l'inganno o con la forza. I reclutatori erano pagati 200.000 pesos per ogni ragazzino che portavano. Gli dicevano che sarebbero andati a lavorare in una finca o li convincevano facilmente perché erano poveri mendicanti senzatetto. C'erano alcuni bambini che vendevano dolci a Bogotà e li avevano convinti a venire. Quando arrivarono si resero conto e si sedettero a piangere. […] Il minore di cui avevo la responsabilità aveva 13 anni, un ragazzino eccezionale, perché il ragazzino giovane è più guerriero del vecchio, è più pronto ad uccidere, più facile da sgridare […].
Nell'aprile del 2002 dovetti combattere e combattere fino quasi a perdere la vita: quelle dell'Anzuelo furono battaglie dure, quella volta uccisero tre dei nostri ragazzini, sette feriti, mentre alla guerriglia non successe nulla. La battaglia durò tutto un giorno, gli uni di qua e gli altri di là, bomba dopo bomba, cilindri, granate di frammentazione contro la guerriglia. […] Poi cominciarono i combattimenti contro il Blocco Centauros. Li chiamavano Urabeños perché venivano dalla regione di Urabà. Lo scontro si scatenò, come dice la gente, per potere: [gli Urabeños] volevano della terra di proprietà di Don Héctor, e per la coca. Arroyave [capo del Blocco Centauros], aveva rapporti con John 40, il guerrigliero (del fronte 43 delle Farc, del Guaviare). Martin Llanos ebbe quattro riunioni con quell'uomo ed egli non volle cedere; questo successe nel 2003, non riuscirono a mettersi d'accordo e si dichiararono guerra. Morì tantissima gente e nessuno mosse un dito.
L'ultimo combattimento fu all'incirca nel luglio del 2005. Furono 18 mesi di guerra durissima. Una guerra tra paramilitari e narcos incredibile. […] Credo che morirono 500 persone. In una battaglia morirono 100 dei loro uomini, perché arrivò l'aviazione dell'esercito, e a noi non spararono. Si trattò probabilmente di uno sbaglio perché Arroyave aveva comprato l'Esercito.[…]
Nella maggioranza dei luoghi si lavorava con l'Esercito: nel Casanare, nel Tauramena, Monterrey e nel Meta a Mapiripan, mentre a Puerto Lopez con la Polizia. In questi paesi si lavorava con la legge […] Quando ci furono gli scontri in Urabà l'esercito non mise mano. Sempre si mettevano da parte e lo stesso faceva la polizia. Camminare in un paese al fianco di 15, 20, 30 paramilitari era compromettente. Ognuno al suo posto. A volte prendevano parte agli scontri. Come è successo tre volte a Mapiripán dove sono entrati ad appoggiarci, e anche noi a volte li aiutavamo perché la guerriglia li teneva sotto scacco.
[…] Un giorno parlai con don Héctor e gli dissi che non volevo più lavorare con loro, che mi lasciasse vivere la mia vita, che se non fossi riuscito a vivere da civile sarei tornato alle armi. L'ultima volta che vidi quel signore fu nel 2005. La polizia mi voleva morto a quel tempo. Tagliammo la corda in tre. Alle 2.30 circa del pomeriggio, sentimmo un furgone. Passammo tutta la notte nascosti nella fogna. Lo stesso il giorno dopo. Ci nascondemmo in un altra fogna più in basso. Riuscimmo ad uscire dal Casanare. Non prenderò più in mano un'arma. Che mi ammazzino loro, io non lavoro più”. (Tratto da: “Yo conocí la maldad”, Semana 13-20 febbraio 2012)
Qui termina il racconto di un ragazzo colombiano qualunque. Ciò che mostra, in tutta la sua tragica chiarezza, è come l'assenza dello Stato ed il rapporto deviato tra forze di sicurezza e gruppi criminali, abbia da sempre favorito, e continui a favorire in Colombia, l'arruolamento di bambini e adolescenti tra le file dei diversi gruppi armati.
I giovani senza formazione sono generalmente i più esposti a cadere nelle reti dei narcotrafficanti e dei paramilitari. Si tratta di un problema sociale gravissimo, a cui il governo continua a non prestare attenzione. Lo ignora, semplicemente. Le risposte violente, la militarizzazione massiva di intere aree rappresentano gli unici provvedimenti che le varie amministrazioni hanno saputo adottare.
E' necessario prendere coscienza che il paramilitarismo nel paese è innanzitutto un problema sociale; senza investimenti seri nel campo dell'educazione e della sanità, senza una vera campagna di prevenzione tra i giovani, senza una profonda attenzione per le aree rurali la Colombia è destinata ad implodere.

lunedì 27 febbraio 2012

Colombia cronaca di una morte annunciata

Oggi vi proponiamo la lettura di questo vecchio articolo,
pubblicato da IL Manifesto nel 2005, 
alla memoria di: 
Luis Eduardo Guerra
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 Luis Eduardo Guerra era uno dei leader di San José de Apartadó, una «Comunità di pace». Il 21 febbraio è stato massacrato insieme ad altre 8 persone. Dall'esercito.
Guido Piccoli
Fonte: Il Manifesto
20 marzo 2005

«Che senso hanno, signori, tante riunioni e tanti eventi mentre ci stanno ammazzando? Che senso hanno gli hotel di lusso, gli esperti delle Ong e tanti intellettuali, che senso ha tutto ciò per noi che abbiamo così bisogno che ci aiutiate a non morire» (dal discorso di Luis Eduardo Guerra al Foro Sociale delle Americhe svoltosi a Quito, nel luglio 2004)

Gli dicono che lo stanno cercando, lo scongiurano di nascondersi. La mattina del 21 febbraio scorso, Luis Eduardo Guerra decide di non sfuggire alla violenza, che l'ha accompagnato fin dalla nascita, trentacinque anni fa. Non vuole abbandonare la sua nuova compagna Bellanira e Deiner, il figlio undicenne che zoppica dall'esplosione, nell'agosto scorso, di una granata abbandonata dall'esercito. E' uno dei leader più riconosciuti di San José de Apartadò. Forse si sente protetto dalla solidarietà ricevuta negli Stati uniti e in vari paesi europei, tra cui l'Italia dagli amici di Narni e degli altri gruppi che formano la Rete di solidarietà con la Comunità di pace. O forse non immagina che vogliano ammazzarlo. Si sbaglia. Luis Eduardo, Bellanira e Deiner vengono intercettati vicino al rio Mulatos, portati sul greto del fiume e squartati con i machete fino ad essere decapitati. Poco lontano un altro gruppo entra sparando nella casa di Alfonso Bolivar, membro della Comunità di pace del suo villaggio. L'uomo riesce a scappare. Scappa anche un contadino di nome Alejandro che sta percorrendo un sentiero vicino: una pallottola lo ferisce alla schiena, viene raggiunto e finito. Alfonso potrebbe salvarsi, ma quando sente le urla della moglie Sandra Milena, che chiede pietà per i suoi figli, torna indietro a morire con la sua famiglia. I machete infieriscono sul suo corpo e quello di Sandra. Nessuna pietà neppure per Natalia di quattro anni e per Santiago di solo 18 mesi. I due massacri hanno dei testimoni, il fratellastro di Luis Eduardo e un vicino di Alfonso.
La risposta dell'esercito
Sono loro che raccontano una verità spaventosa: stavolta i carnefici non sono i tagliateste delle Autodefensas Unidas, i principali protagonisti da vent'anni della macelleria colombiana, ma i militari del 33° battaglione di controguerriglia dell'esercito. Da quattro giorni l'intera regione è sorvolata da elicotteri ed aerei bombardieri e invasa dai reparti della 17° brigata di stanza nella base di Carepa. E' la risposta all'imboscata nella valle della Llorona di una settimana prima del V° fronte delle Farc, costata la vita a sedici soldati. Com'è successo tante altre volte, sono i civili indifesi a fare da vittime sacrificali delle rappresaglie.
Da quando, nel 1997, gli sfollati di San José de Apartadò si sono proclamati Comunità di pace, rifiutandosi di collaborare con tutti i protagonisti della guerra, compreso l'esercito, molti generali li considerano alla stregua dei ribelli. Lo stesso presidente Alvaro Uribe, nel corso di un vertice tenuto nel maggio scorso nella vicina Apartadò, sostenne che San José fosse in realtà un «corridoio» usato dalle Farc. Noncurante delle sentenze della Commissione interamericana dei diritti umani e della stessa corte costituzionale colombiana che hanno, in più occasioni, ingiunto allo stato colombiano di «offrire una protezione speciale» alla Comunità di San José, in quell'occasione, Uribe invitò la polizia ad arrestare, se necessario, i suoi dirigenti e a deportare i volontari che li proteggono, prima di tutti quelli delle Peace Brigades.
Quando a San José si viene a sapere del massacro, partono gli inviti a bloccare la carneficina, gli appelli alle organizzazioni umanitarie in Colombia e nel mondo. Per recuperare i corpi delle vittime viene organizzata una spedizione di quasi duecento persone, accompagnata da sacerdoti, cooperanti internazionali e l'ex sindaca di Apartadò, Gloria Cuartas. La comitiva si dirige a Mulatos, nella fattoria di Alfonso, affollata di vicini che aspettano l'arrivo dei funzionari giudiziari. E' il 25 febbraio. Il giorno dopo ci si fa guidare dai cerchi concentrici degli avvoltoi, per scoprire i cadaveri straziati di Luis Eduardo e dei suoi. All'orrore si aggiunge la rabbia. In zona vagano ancora reparti dei soldati. A differenza di altre volte, il loro atteggiamento è sfrontato. C'è chi, ironizzando sul fetore che satura la zona, sostiene che ci sia «puzza di guerrigliero morto». Qualcun altro accusa il gruppo di essere arrivato fino a lì dietro ordine delle Farc. Vengono prese foto e rivolte minacce ai contadini. Un soldato brandisce come un trofeo un machete trovato sul greto del fiume e, nonostante le proteste, lo pulisce con la sabbia cancellando le tracce di sangue. Più che un'ammissione di colpa, l'atteggiamento dei militari equivale ad una rivendicazione.
Di diverso tono sono ovviamente le risposte che le autorità danno pubblicamente a Gloria Cuartas, agli avvocati della Corporación Jurídica Libertad e al padre gesuita Javier Giraldo che denunciano la responsabilità della XVII° brigata nel massacro: mentre il comandante dell'esercito, Reinaldo Castellanos, definisce queste accuse «temerarie», il ministro della difesa, Jorge Alberto Uribe assicura una certa «tranquillità della forza pubblica, visto la sua estraneità al crimine». Da tutto il mondo piovono proteste indignate contro il governo Uribe che, come minimo, non ha fatto nulla per difendere la Comunità di San José. Oltre all'Onu e l'Organizzazione degli stati americani, gli scrive una dura lettera anche il sindaco di Roma, Walter Veltroni. Da parte del governo di Bogotà inizia l'abituale fuoco di sbarramento, orchestrato dal vice-presidente Francisco Santos, ormai esercitato a recitare, nello staff di Uribe, i ruoli più patetici. Salta fuori il solito guerrigliero pentito, lasciato ovviamente anonimo, che racconta che Luis Eduardo sarebbe stato ammazzato dalle Farc per non avere più voluto che San José continuasse ad essere usato dai ribelli «come luogo di riposo e vacanza». L'assurda tesi viene fatta propria dai mezzi di comunicazione. Il 2 marzo arriva in zona una commissione giudiziaria, che si scontra però con un muro di silenzio: nessuno vuole parlare con i giudici. Neppure Gloria Cuartas che ricorda che «tutte le testimonianze rese negli ultimi otto anni sulle violazioni dei diritti umani sono servite soltanto a criminalizzare le vittime e non i carnefici».
Ancora più dall'insediamento di Uribe, parlare di giustizia, in Colombia è un eufemismo. Sottoposta a minacce e ripulita da quasi tutti gli elementi onesti, la magistratura ha sempre assecondato il sodalizio tra i vertici dell'esercito, comandato negli anni scorsi nella regione di Urabà dal generale Rito Alejo Del Río, detto «El Pacificador» (al quale persino gli Usa avevano negato il visto d'ingresso per avere costituito gruppi paramilitari) e il nucleo centrale delle Auc, a capo dei quali c'erano Carlos Castaño e Salvatore Mancuso. Oltre ad intimidire i testi o ad accumulare inutilmente le loro denunce, i giudici hanno lasciato spesso filtrare le loro generalità, segnalandoli ai killer statali e parastatali.
Un massacro impunito
Dei duemila abitanti di San José, dal 1997 ne sono stati ammazzati 165, una ventina dalle Farc e dell'Eln e il resto da militari e paras. Non a caso, nel centro del villaggio, cresce a dismisura un monumento di mattoni con i nomi delle vittime e, dietro le fila delle baracche, il cimitero. Non solo tutti gli omicidi sono rimasti impuniti: come ricorda padre Javier Giraldo «in molti hanno pagato con la morte la fiducia nella giustizia». Per questo, la Comunità ha deciso di rendere testimonianza del massacro solo alla Commissione interamericana dei diritti umani, riunita il 14 marzo in Costarica. I giudici della Fiscalia lasciano a mani vuote San José. Sulla strada del ritorno sono attaccati a colpi di mortai e lanciarazzi, che uccidono un poliziotto di scorta e ne feriscono altri tre. L'agguato, che governo, esercito e giudici attribuiscono alle Farc, corrobora per i giornali la colpevolezza dei ribelli nell'uccisione di Luis Eduardo e degli altri 8. Da Bogotà Uribe tuona che «non può esserci un solo centimetro del territorio nazionale vietato alla forza pubblica». Considerando la «neutralità» una forma di complicità con la guerriglia, il ministro della difesa annuncia che verrà al più presto sanata l'anomalia di San José e delle altre comunità di pace esistenti, per lo più lungo la costa del Pacifico. Quando, il giorno dopo, l'esercito entra nelle stradine del villaggio, i suoi abitanti minacciano un nuovo esodo, rifiutandosi di «convivere con i loro assassini». E fanno un appello a tutte le voci libere del mondo perché si uniscano nel richiedere il rispetto per la popolazione civile.
Il braccio di ferro tra i contadini di San José e lo Stato colombiano chiede di schierarsi. Impresa non facile, ad esempio, per la chiesa. Per un padre Giraldo che rischia ogni giorno di trovare un sicario sulla sua strada, c'è il vescovo della vicina Apartadò che, in questi giorni, ci tiene a sottolineare il suo «accompagnamento solo pastorale» alla comunità ribelle. Ma l'ultima strage impone anche a Bruxelles e alle diplomazie europee presenti a Bogotà d'intervenire. Per salvare altri innocenti e per valutare che non sia il caso di sistemare nella lista dei «terroristi» colombiani anche gli squartatori e i loro rispettabili mandanti e conniventi.
http://www.webalice.it/chicomendes/documentazione/AmericaLatina/Colombia/Colombia%20cronaca%20di%20una%20morte%20annunciata.htm