Le madri di Soacha


COLOMBIA
Anne Proenza, Libération, Francia
Dal 2002 i militari colombiani hanno ucciso più di duemila civili facendoli passare per guerriglieri. E hanno incassato il premio previsto dalla legge. Oggi le famiglie delle vittime chiedono giustizia.
Luz Marina Bernal, 51 anni, occhi color acquamarina, aveva quattro figli. María Sanabria, 52 anni, un bel viso coperto di lentiggini, nove figli. Un giorno del 2008 sono diventate le “madri di Soacha”.
Soacha è una città non lontana da Bogotá. Una zona popolare dove convivono quartieri poveri e zone lussuose e dove lavorano e cercano di sopravvivere quasi 400mila persone. Per la maggior parte dei colombiani Soacha non vuole dire niente; solo pochi ricordano quando le madri di Soa­cha sono apparse in televisione il 23 settembre del 2008. Queste donne, 17 solo a Soacha e diverse migliaia in tutta la Colombia, chiedono giustizia per i loro figli, scomparsi un mattino qualunque, venduti e uccisi dall’esercito colombiano.
In Colombia la loro storia è conosciuta come il caso dei falsos positivos, un’espressione che serve a nascondere i crimini compiuti dai militari in nome della lotta contro la guerriglia. Fair Leonardo, 26 anni, disabile, era il figlio di Luz Marina. Jaime Estiven, 16 anni, sperava di diventare cantante o veterinario; era il figlio di María. Fair e Jaime fanno parte di quel gruppo di ragazzi, tutti di umili origini, uccisi dall’esercito colombiano e presentati come guerriglieri morti in combattimento. Nel gergo militare si dice “positivo” per indicare una perdita dell’avversario. Questi fatti sarebbero potuti rimanere nell’ombra. Durante gli anni della cosiddetta seguridad democratica (la campagna di repressione della lotta armata condotta dal presidente Álvaro Uribe dal 2002 al 2010) il numero delle scomparse e degli omicidi è stato molto alto.
In Colombia, un paese lacerato da un conflitto lungo e complesso, si parla di trentamila scomparsi e di tre milioni di profughi e non passa giorno senza che la polizia trovi nuove fosse comuni.
L’8 gennaio 2008 Fair Leonardo, che soffriva dalla nascita di un grave disturbo mentale, esce di casa per andare a lavorare. Il figlio di Luz Marina di solito aiutava gli operai dei cantieri edili nella zona. Quando quel mattino dice al telefono “Sì, arrivo” ed esce subito di casa, nessuno si preoccupa. Non tornerà più e da quel momento per la famiglia Bernal comincia il lungo calvario che tutte le famiglie degli scomparsi conoscono bene.
Luz Marina si rivolge al commissariato, ma le rispondono di aspettare almeno 72 ore prima di denunciare la scomparsa del figlio. La donna insiste, ma la prendono in giro. La famiglia organizza la ricerca del ragazzo negli ospedali, negli alberghi, in prigione. I fratelli e le sorelle si travestono da poveri per andare nei bassifondi di Bogotá, nella speranza che Fair si sia perso. Luz Marina fa trasmettere degli annunci alla radio, alla televisione, sfrutta tutti i mezzi a sua disposizione.
L’8 settembre, mentre sta andando al commissariato per l’ennesima volta, la madre di Fair incontra una donna che le dice che il corpo di suo nipote è stato trovato in una fossa comune a centinaia di chilometri da Bogotá e le consiglia di presentare una richiesta all’Istituto medico legale nazionale di Bogotá. Qui per la prima volta un funzionario prende sul serio la sua domanda, archivia il numero della carta d’identità di Fair, la sua foto e le sue impronte digitali.
Fosse comuni
A metà settembre l’Istituto medico legale convoca Luz Marina e la donna si rende conto che non vedrà più suo figlio. Le mostrano trenta foto; Fair è irriconoscibile, sfigurato dai proiettili. Gli abiti che indossa, una giacca di cuoio e degli stivali, non gli appartengono. La donna vuole recuperare il corpo del ragazzo per seppellirlo, ma le rispondono: “Deve aspettare che vengano trovate altre quattro o cinque famiglie delle vittime, altrimenti dovrà spendere 450mila pesos (172 euro) per l’esumazione”. Luz Marina scopre che altre tre famiglie di Soacha sono nella sua situazione. I loro figli sono scomparsi, uccisi e sepolti come “nn” (in spagnolo ningun nombre, persona sconosciuta) e sono stati identificati grazie alle impronte digitali nel cimitero di Ocaña, una cittadina nel dipartimento di Santander, a settecento chilometri da Soacha. Le quattro famiglie s’incontrano, si scambiano le foto dei loro figli, discutono, piangono. Alcuni giornalisti che si trovano all’istituto di medicina legale per un altro caso assistono alla scena. La storia delle quattro famiglie di Soa­cha viene raccontata in televisione la sera stessa. I giornalisti chiedono di accompagnare le famiglie a Ocaña, in un viaggio di 18 ore di autobus.
Quando arrivano, il giudice della città dice a Luz Marina: “Non mi dica che non sapeva che suo figlio era un terrorista e che apparteneva a un gruppo armato? È stato ucciso durante un combattimento con l’esercito”. “Quando?”, chiede la madre. “Il 12 gennaio 2008 a Ocaña”, le viene risposto. La sua parola non vale molto di fronte a un militare, ma la donna insiste: “Fair è morto 72 ore dopo la sua scomparsa, a più di 18 ore di cammino da casa sua. Si tratterebbe di un addestramento molto veloce per un guerrigliero. Mio figlio non era capace di usare la mano destra, perché era disabile, come dimostrano i suoi documenti d’identità”. Luz Marina ripete instancabilmente: “L’ultima cosa che ci tiene in vita è questa lotta per restituire dignità ai nostri figli. Vogliamo che i colpevoli siano processati”.
Il mondo è crollato per María Sanabria il 26 settembre 2008, quando uno dei suoi figli l’ha chiamata al telefono. “Alla radio hanno detto che alcuni ragazzi scomparsi sono stati ritrovati in una fossa comune a Ocaña”, le ha detto. Quando ha ricevuto questa telefonata María, infermiera, madre single di nove figli, cercava da otto mesi il figlio di 16 anni. Jaime Estiven esce da casa il 6 febbraio verso le 11,30 per andare a mangiare e non torna più. Dopo averlo aspettato tutta la notte, la madre va al commissariato dove le ridono in faccia: “A 16 anni è sicuramente andato in giro con la fidanzata”, le dicono. Ma la donna insiste, lo cerca per tutta la città. A Ocaña, a settembre, María viene a sapere che Jaime Estiven è morto due giorni dopo la sua scomparsa. Dopo lunghe trattative il corpo le viene consegnato avvolto in carta di giornale e in sacchi di plastica, perché una bara costa troppo. Il ragazzo viene seppellito il 2 novembre 2008.
Il 29 ottobre 2008 il ministro della difesa Juan Manuel Santos (diventato presidente della Colombia a giugno del 2010) decide di fare chiarezza su questi casi e chiede un’inchiesta. Durante le indagini emergono prove schiaccianti della colpevolezza di molti militari. Vengono sospesi 27 soldati, fra cui tre generali. La versione ufficiale è che queste esecuzioni siano state azioni compiute da elementi isolati. Il ministero ha promesso di processare i responsabili. Dopo l’inchiesta in poche settimane si sono moltiplicate le denunce di casi simili. Secondo la stampa colombiana, fino ad agosto del 2011 la magistratura ha ricevuto più di duemila denunce che riguardano 1.487 militari: di questi solo un centinaio sono stati processati.
Philippe Alston, inviato speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani, è stato in Colombia nel giugno del 2009 per studiare questi casi. Nel suo rapporto ha confermato: “Le mie indagini hanno dimostrato che alcuni membri delle forze armate colombiane hanno compiuto una serie di esecuzioni extragiudiziali, omicidi che si sono ripetuti in tutto il paese con le stesse modalità. Sono coinvolti molti militari”. Alston ha aggiunto che la percentuale di impunità per questi reati è troppo alta, “perché il 98,5 per cento dei responsabili non è stato punito”. Il caso dei falsos positivos è diventato uno scandalo politico in Colombia.
L’espressione falsos positivos, usata dalle autorità e ripresa dalla stampa colombiana e internazionale, non è neutra. Come ha osservato lo scrittore William Ospina: “Un certo uso della lingua favorisce la violenza, perché invece di denunciarla, ci abitua a sopportarla. Queste parole asettiche rendono meno dure le atrocità a cui si riferiscono. A volte è il linguaggio giuridico che prende il sopravvento e anche se in Colombia la pena di morte è stata abolita, si parla di esecuzioni extragiudiziali. Ci abituiamo a questa terminologia di eufemismi”. Anche se il caso è scoppiato solo nel 2008, sicuramente le esecuzioni di civili da parte dell’esercito sono cominciate molto prima.
Il 7 giugno 1990 a El Ramal, nel dipartimento di Santander, una sparatoria tra l’esercito e la guerriglia aveva sollevato qualche dubbio. “L’inchiesta giudiziaria ritiene molto probabile che nove uomini siano stati uccisi dall’esercito e poi vestiti con uniformi della guerriglia. Uno dei procuratori arrivati sul posto della presunta battaglia si è subito reso conto che sulle uniformi non c’erano tracce dei proiettili in coincidenza con le ferite”, scriveva l’ambasciatore statunitense dell’epoca in un telegramma. Secondo l’associazione National security archive di Washington – che ha pubblicato nel 2009 alcuni studi sull’argomento – “il comportamento dell’esercito colombiano per molti anni è stato ispirato dalla sindrome del body count (la quantificazione dei morti uccisi in combattimento)”.
Secondo le denunce di numerose organizzazioni non governative (ong) questa politica si è affermata in particolare durante il governo di Álvaro Uribe. Nel novembre del 2005 il ministro della difesa Camilo Ospina aveva diffuso una direttiva con lo scopo di “definire una politica chiara per il pagamento di ricompense per la cattura o l’uccisione dei capi delle organizzazioni armate fuorilegge, per il sequestro di armi e munizioni e per l’acquisizione d’informazioni”. Questo documento di 15 pagine conteneva un elenco di ricompense da 3,8 milioni a 5 miliardi di pesos (tra 1.500 e due milioni di euro) per ogni guerrigliero ucciso a seconda del suo grado.
Nel 2008 la rivista Semana pubblicò un articolo in cui il sergente Alexánder Rodríguez, della XV brigata mobile, denunciava che i soldati del suo battaglione, attivo a Ocaña, venivano ricompensati con una licenza di cinque giorni se uccidevano dei nemici in combattimento e dichiarava di essere stato testimone di omicidi di civili, presentati poi come guerriglieri. Per questa testimonianza il sergente è stato espulso dalle forze armate.
Impunità
Le madri di Soacha hanno dovuto sopportare un clima di minacce e diffidenza. Tra il gennaio e il giugno del 2008 in Colombia sono stati uccisi venti attivisti per i diritti umani. Queste donne sono sostenute da numerose associazioni come il Movimento delle vittime dei crimini di stato (Movice), il Collettivo di avvocati José Alvear Restrepo e l’associazione Minga. Il nuovo presidente Juan Manuel Santos ha preso le distanze dal suo predecessore e ha fatto approvare una “legge per le vittime” . Tuttavia le violenze non sono finite: l’osservatorio dei diritti umani della presidenza ha denunciato 116 omicidi fra gennaio e luglio del 2011 (nel 2010 erano stati 183). La maggior parte dei militari coinvolti nel caso dei falsos positivos è stata rilasciata. Spesso basta un intoppo burocratico per sospendere i processi. Per la morte dei 17 ragazzi di Soacha c’è stato un solo processo, concluso il 15 luglio 2011. Otto militari sono stati condannati a pene che vanno da tre settimane a 55 anni di prigione. Al processo i militari hanno spiegato come eseguivano gli omicidi e raccontavano i falsi combattimenti sui rapporti ufficiali. Luz Marina, che ha assistito al processo, non nasconde la sua delusione: “Avrebbero meritato il carcere ordinario, non quello militare. Sono dei criminali”.
Gli assassini di Fair Leonardo invece non sono stati ancora condannati. Luz Marina ha raccolto con il suo avvocato trecento prove che incriminano sei militari, arrestati e poi rilasciati. L’uomo che ha sequestrato Fair è stato arrestato e ha confessato di aver ricevuto duecentomila pesos (80 euro) per consegnare Fair Leonardo a un militare il 9 gennaio 2008. Il processo che doveva cominciare a ottobre è stato di nuovo rinviato. Il colonnello Fernando Borja, uno dei pochi ufficiali condannati (42 anni di prigione ridotti a 21 per essersi dichiarato colpevole), ha riconosciuto che il suo battaglione tra il febbraio 2007 e il giugno 2008 ha ucciso 57 civili con il metodo dei falsos positivos. Secondo la rivista online Kien y ke il colonnello “si sentiva sotto pressione” dopo la visita del ministro della difesa “che chiedeva dei risultati”.
La sorella di Fair Leonardo, Liz Caroline, ha composto una canzone rap, Lágrimas, per raccontare la storia di suo fratello. “Quello che non sapevano è che qui c’è una famiglia che lo difenderà fino alla fine”, dice il testo. María e Luz Marina continuano la loro battaglia. Seguono dei corsi all’università, vanno alle manifestazioni e lo scorso inverno hanno girato l’Europa presentate da Amnesty international. Luz Marina ha deciso di diventare avvocato e María vuole fare la giornalista.
Continuano a viaggiare in tutto il paese “per spiegare ai ragazzi come non farsi fregare”. María racconta che alla fine di un incontro all’università Javeriana di Bogotá, sono andati da lei tre ragazzi in lacrime. Erano figli di militari e si preoccupavano del possibile ruolo svolto dai loro padri. María ricorda con dolore anche quando, a Medellín, alcune donne le hanno confessato di non avere il coraggio di denunciare l’omicidio dei loro figli.
Lei gli ha detto: “I figli pensano sempre che le loro madri siano coraggiose. E dovunque essi siano in questo momento, si staranno chiedendo: perché le nostre madri non si battono più per noi?”.