Le dieci fatiche di un volontario in Colombia

Vi proponiamo una lettera di testimonianza di un volontario di Operazione Colomba.
articolo originariamente pubblicato su sul sito: 

Sunday 24 April 2011



Atterro per la prima volta nel piccolo aeroporto di Apartadò. Fa caldo. Ritiro il mio zaino e prendo un taxi. Per strada fiumi di gente, sciami di auto dirette chissà dove, coltivazioni di banane ovunque, e poi bancarelle colorate un po' dappertutto, agli angoli delle strade, sotto tetti improvvisati.
E poi via, in corsa sul chivero, la jeep sovraccarica di passeggeri che parte rombando per le strade di Apartadò per raggiungere la comunità di pace. In braccio ai passeggeri bambini di ogni età.

Loro non pagano il biglietto e quindi non hanno diritto ad un posto a sedere. Si sale attraverso una strada sterrata e pericolante per una quarantina di minuti, villaggi di poche case ai lati della mulattiera, gente incuriosita che non si è ancora abituata alla vista di occidentali, siamo tutti gringos per loro, e poi, finalmente, dietro l'ultima curva, le prime baracche e il cartello: “Comunidad de paz San José de Apartadò”. In basso vengono ribaditi i concetti di nonviolenza e di neutralità rispetto alle parti armate.
I primi ad accoglierci sono i bambini. Si danno subito, completamente, senza riserve. Ci regalano grandi abbracci e sorrisi da far passare qualsiasi dubbio. Molte persone affacciate alla finestra sembrano curiose. I miei compagni mi presentano praticamente a tutti e già cominciano le prime difficoltà: ricordarsi i volti e associarli ai nomi. Nomi altisonanti, alcuni, e comunque sempre difficili da ricordare. Mi diletto a stento con il mio spagnolo da grammatica facile comprata in Italia qualche settimana prima. Ma non servono molte parole: basta un sorriso, basta il contatto umano, uno sguardo di fratellanza, scambiato di fretta, perché non ci si conosce ancora.
La casa della Colomba è una baracca fatta di assi inchiodate e lamiera. Sulla porta una colomba e la scritta Palomas de paz, così ci ha ribattezzato la comunità. All'interno un ordine fatto di semplicità, di cose umili: un tavolo di assi e chiodi, un fornello a gas, stoviglie, c'è persino un frullatore, due camere con letti a castello, un piccolo bagno e un lavatoio di cemento. Nient'altro. Mi piace tutto di quella casa. E la rimpiango a volte. La porta è sempre aperta e dà sul viale d'ingresso, i bambini si affacciano dall'unica finestra della casa, entrano spesso dalla porta e si fermano a disegnare e a leggere il pomeriggio, quando il sole è troppo caldo per stare in strada e la scuola è finita già da un pezzo. Nemmeno il tempo di sistemare le mie cose e già fa capolino dalla porta un nonnino dall'aria simpatica. E' Annibal, venuto a conoscere il nuovo arrivato. Posa il machete fuori dalla porta e mi regala un sorriso che scalda, è un sorriso quasi senza denti, ma è il primo sorriso che mi torna in mente quando ripenso alla Colombia. La sera siede spesso tra noi. Viene per un caffè e una partita a domino. Già, il domino. Seconda difficoltà. I miei compagni tentano di spiegarmi la strategia vincente, Annibal ride tutto il tempo, felice come un bambino, divertito dalla mia incompetenza. In tre mesi riuscirò a vincere si e no una decina di partite, fra il mio imbarazzo e il divertimento altrui. Anche questo significa essere volontari della Colomba. In pochi giorni siamo amici. Discutiamo insieme di un progetto per costruire un recinto e coronare finalmente il sogno di Monica, quello di avere un piccolo giardino per coltivare qualche verdura e un po' di fiori. Lui dà consigli, io cerco di dare una mano, ma è lui a fare il grosso dei lavori. In meno di tre giorni raccoglie la legna necessaria nella foresta, sega, scava, prepara uno steccato e fissa la rete. La prima vera soddisfazione.
Torno in camera, questa volta deciso a svuotare lo zaino, ma sento le voci di un gruppetto di bambini. Riuscirò a riordinare le mie cose solo il giorno seguente...
E già mi sento bene, sono in America, per la seconda volta. Ad attendermi al terminal i miei futuri compagni di viaggio: ecco Monica ed Oreste, che mi accolgono con un lungo abbraccio, più avanti Alice ed Angela mi sorridono e mi stringono forte. 

E poi c'è Brigida. Brigida è una di quelle persone che  tutti dovrebbero incontrare, almeno per una volta. E' l'unica persona che ascolterei parlare per ore senza stancarmi. Ha perso una figlia, uccisa dai paramilitari, due fratelli, uno ucciso dalle Farc e l'altro dai paramilitari, mentre un altro fratello risulta disperso, eppure parla di nonviolenza con una naturalezza disarmante. Ci baciamo e ci abbracciamo, tutti e due un po' intimiditi.

I bambini fanno mille domande, io naturalmente capisco un terzo di quello che dicono e cerco di rispondere in modo sensato a qualcuno, ma non sempre mi riesce, più spesso annuisco cercando di assumere un'espressione intelligente. Dubito abbia funzionato.

La mattina mi sveglio con l'aroma del caffè. Alice ha già preparato il tavolo con biscotti pane e marmellata, caffè e latte. Non la ringrazierò mai abbastanza per questo. Riunione presieduta da Monica e già ci chiamano per il primo accompagnamento. J. E., il responsabile della comunità che ho conosciuto a Rimini qualche settimana prima, mi saluta velocemente e mi dà il benvenuto, ma non ha tempo, è al telefono, è sempre al telefono. Ci dice che dobbiamo fare in fretta e cercare a tutti i costi di prendere il chivero delle otto diretto in città. Giusto il tempo di mettersi le scarpe afferrare il passaporto e già siamo in strada. I posti a sedere sono già occupati e ci tocca rimanere fuori, appesi alle barre di ferro del portapacchi, o seduti sulla capotte. Ma è meglio così: si gode di una vista migliore e si prende aria. Dopo alcune centinaia di metri il chivero si ferma: una signora dai tratti particolari e dai vestiti fluorescenti con al seguito figli e sacchi, sale, non si sa come, e riesce miracolosamente a trovare posto all'interno dell'abitacolo. Vedrò compiersi il miracolo decine di altre volte, sotto il mio sguardo sbigottito per la loro agilità e capacità di adattamento. Sono indigeni, vivono non molto lontano, in una riserva concessa loro dal governo dopo essere stati strappati a forza dai loro territori di origine. Qualcuno è stato ucciso altri, accecati dai contributi governativi, hanno sperperato tutto in città e ora vivono di nulla. Non riescono quasi mai a pagare per intero il biglietto del chivero, ma nessuno si lamenta.

L'accompagnamento in città è una di quelle esperienze che ti lasciano perplessi. La vera difficoltà, la terza, è quella di rimanere concentrati. Ci si sente spesso assaliti da un sentimento di impotenza e inutilità, ma è solo un'impressione: nel 2008 due paramilitari, a bordo di una motocicletta, si avvicinano ad J. E., il quale, avvertito il pericolo, riesce a mettersi in salvo fiondandosi all'interno di un internet point dov'è presente un internazionale.

Dopo alcuni giorni si parte per il primo accompagnamento nelle veredas[1]: siamo io, Monica, A., un membro del consiglio comunitario. Direzione: Mulatos e Resbalosa. E qui vengono la quarta e la quinta difficoltà: salire su un cavallo e cavalcare un cavallo. Giusto il tempo di apprendere alcune nozioni di base (come girare a destra e sinistra, come frenare) e già abbiamo raggiunto San José. San José è il villaggio in cui ha vissuto la comunità fino al 2005, fino al massacro – perpetrato congiuntamente da militari e paramilitari – in cui hanno perso la vita otto persone, tra cui tre bambini. Da quel giorno San José è presidiato da polizia e militari, si dice per proteggere la comunità. Tant'è che la Comunità se ne è andata quasi subito e in pochi mesi ha fondato un nuovo villaggio, San Josecito: suppongo non si sentisse poi così protetta dalla forza pubblica.

Dopo sette ore di marcia, tra fango un po' ovunque, male alle gambe e schiena a pezzi arriviamo finalmente al Mulatos. Mulatos è uno di quei luoghi paradisiaci che ingannano l'animo di un volontario alle prime armi, per altro provato da un viaggio che pare infinito: prati ovunque, mucche, cavalli in libertà, capanne di legno e paglia e... sangue. E' in questi luoghi, infatti, che si è consumata la tragica fine di Luis Eduardo Guerra, leader storico della comunità, il 21 febbraio del 2005. Proprio qui, sei anni fa, nel fiume che ora attraversiamo prima di entrare nel territorio comunitario, è stato sorpreso da una squadra di militari e paramilitari, fatto prigioniero e ucciso brutalmente insieme a suo figlio e alla sua compagna. E' in questi luoghi che ancor oggi, quasi ogni sera, Farc, esercito e paramilitari si sparano per il controllo dei territori. Bisogna pur imparare a distinguere l'apparenza dalla realtà. Sesta difficoltà.

Il giorno seguente salutiamo il Mulatos e riprendiamo il cammino per la Resbalosa. Anche il nome Resbalosa evoca negli abitanti della comunità ricordi di insuperata violenza. A poche ore di distanza dall'assassinio di Luis Eduardo, la stesso gruppo armato sterminerà un'altra famiglia, taglierà la testa a 2 bambini e ridurrà i loro corpi a pezzi. Dopo aver confessato i militari saranno tutti assolti. Il giudice che si occuperà del caso sentenzierà che non si può impedire a dei militari di eseguire degli ordini. Amen.

Dopo un'ora e mezza di strada, finalmente l'ultima salita ed ecco raggiunto il bell'altipiano abitato da una famiglia molto particolare. In tutto saranno una quindicina, fra anziani, uomini, donne e bambini. Sono sorpresi, non ci aspettavano. Ci salutano con affetto e ci abbracciano sorridenti. C'è J., con la sua compagna Mona e i suoi tre figli, i suoi fratelli e i suoi genitori. Giusto il tempo di fissare l'amaca e già ci servono il pranzo: acqua e panela, riso, fagioli e uova. Il pomeriggio è tempo di condivisione, un po' di chiacchiere e una partita a calcio. E qui viene la settima difficoltà. E' dura essere un italiano a cui non piace il calcio, tutti si aspettano almeno un'infarinatura generale: io nulla. Ma accetto la sfida: Monica è in porta con Ana, la mamma di J., io in attacco, o almeno credo, e poi, in campo, ragazzi e ragazze, bambini, madri e padri e tutt'attorno foresta e montagne,occhi nascosti, che ci osservano chissà da dove...
Alla fine perdiamo, c'era da aspettarselo, ma è giusto così. La sera arriva presto, ci sorprende verso le sei, quando ancora sono impegnato a riprendere fiato. Non c'è la corrente elettrica nel villaggio, la gente regola la propria vita in base ai tempi della natura. La mattina si alza presto, verso le cinque e la sera, dopo aver cenato, si va a letto. Alle otto è già silenzio. Si fa per dire. Ci sono le rane, i grilli, gli uccelli e... i galli. Ottava difficoltà. Ho sempre pensato che i galli cantassero all'alba, quando i primi raggi di sole inondano con la propria luce la terra ancora addormentata. Niente di più falso: i galli cantano tutta la notte. Ogni ora, puntuali come un orologio del campanile, cantano. Sono molti. E cantano. Tutti. Cantano. Tutta la notte. Ho imparato ad odiarli in silenzio, covando, è proprio il caso di dirlo, una rabbia sottile, arrivando persino a immaginarmeli spennati e al forno. Ma ho capito che facevo del male solo a me stesso...

La mattina presto è già un vai e vieni tutt'attorno. C'è chi spacca la legna per accendere il fuoco, chi batte il mais all'interno di enormi mortai in legno per decorticarlo, chi scopa energicamente e chi lava i panni al lavatoio. Non si può rimanere nell'amaca mentre tutti si danno da fare. Monica è già in piedi, pronta per dare una mano in cucina. Io mi offro disponibile a battere il mais. Nona difficoltà. Ce la metto tutta e intanto penso a quanto lavoro c'è dietro ad una colazione, alla facilità con cui noi abbiamo accesso alle cose. Alle otto la colazione è servita: arepa (sfoglia spessa di mais), uovo saltato, riso e fagioli. Guardo il mio piatto con aria rassegnata abituato come sono al caffè, al latte e ai biscotti. Ma lavorare mi ha messo appetito e mangio con gusto il ricco piatto che Ana ha preparato per noi. Anche gli uomini mangiano in nostra compagnia, terminano velocemente la loro colazione e poi via, a lavorare nei campi tutto il giorno. Rientreranno a casa solo la sera, stanchi, ma sempre disposti a scambiare quattro chiacchiere con noi.

In una di queste serate J. ci racconta la sua storia, dell'arrivo dei paramilitari, della fuga nella foresta insieme alla sua famiglia, degli spari e dei proiettili che hanno colpito il suo piede destro e, finalmente, del ritorno alla propria terra. E subito mi assale un sentimento forte di impotenza. Ne discuterò con i miei compagni una volta tornato a casa, e un po' mi passerà. Proverò altre volte la stessa terribile sensazione: dinnanzi ad un corpo crivellato di colpi, dinnanzi all'indifferenza generale, dinnanzi ad una madre che piange per la perdita del padre dei suoi figli.

Oggi J. deve muoversi su un piede solo, o con le stampelle quando il dolore è insopportabile. Ma è un uomo coraggioso e che non si arrende. Lavora sodo, come il resto della sua famiglia, e sopporta in silenzio, senza lamentarsi.
E' di nuovo  mattina ed è già arrivato il momento di ripartire. Oscar è salito dal Mulatos con Gringo, il cavallo albino che mi è stato affidato. Dobbiamo raggiungere in fretta San Josecito. C'è da prepararsi per la partenza di Angela, Oreste se n'è andato da poco e, senza Angela, rimarremo in tre, ameno per un periodo. Anche questa è una difficoltà, la decima: abituarsi alle relazioni fugaci, alle partenze che arrivano veloci, quando ancora avresti mille cose di cui parlare, milioni di parole da scambiare. Ma non è tempo per rattristarsi. Monica è già in sella alla sua mula, Oscar è già pronto e apre la strada. Monto su Gringo, mi volto ancora una volta verso il villaggio, do un ultimo sguardo, col cuore pieno. Sono di nuovo in cammino.

Andrea Rollini